Non solo nel rapporto di lavoro privato, ma anche nel pubblico
impiego privatizzato, il dipendente adibito a mansioni superiori rispetto
a quelle indicate nel contratto ha diritto a rivendicare, nei confronti del
datore di lavoro, una retribuzione superiore. Ciò è stato sottolineato
recentemente dalla Suprema Corte di Cassazione (sentenza n. 796/14)
La condizione è, ovviamente, che le mansioni superiori assegnate
siano state svolte nella loro pienezza e che il lavoratore abbia esercitato i
poteri e assunto le responsabilità correlate a dette superiori mansioni.
Così, per esempio, un dipendente dell’Asl con qualifica di
infermiere generico potrebbe agire onde ottenere le differenze retributive per
aver di fatto svolto mansioni superiori di infermiere professionale.
Nel rapporto di lavoro pubblico, la legge (art. 52 del D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165) prevede che
l’assegnazione del lavoratore alle mansioni superiori (al di fuori di alcuni
casi espressamente previsti dalla norma) è nulla, ma al lavoratore è comunque riconosciuta la differenza di trattamento retributivo tra le due
qualifiche.
La Suprema Corte ha sottolineato il diritto di ogni lavoratore a
vedersi riconosciuta una retribuzione proporzionata e
sufficiente, così come imposto dalla Costituzione. E ciò vale anche
nel rapporto di lavoro pubblico, anche a prescindere dalla presenza o meno di un provvedimento formale di assegnazione del
dipendente alle diverse superiori mansioni.
L’unica ipotesi in cui potrebbe essere compresso il diritto alla
retribuzione superiore si ha nei casi di mansioni superiori effettuate all’insaputa dell’ente o con la fraudolenta collusione
tra dipendente e dirigente.