giovedì 17 aprile 2014

“…raccomandato e leccaculo…”. È questa la frase che ho postato su Facebook alcuni giorni fa. Un collega di lavoro minaccia di denunciarmi poiché è convinto che mi stessi riferendo a lui. Può farlo?

Gentile lettore,
Le offese su Facebook, anche se accessibili solo a pochi iscritti e riferite a persone di cui non viene fatto il nome, possono portare a una condanna per diffamazione. Affinchè si configuri il reato non è dunque necessario indicare nome e cognome della persona offesa se questa può essere comunque identificabile dal contesto.

A volte, tentare di essere generici nelle illazioni non salva da una condanna per diffamazione. Lo dovrebbe sapere chi utilizza Facebook e i post sulla propria bacheca per inviare messaggi “cifrati” ai propri rivali. Ma se le allusioni non sono poi così difficili da comprendere e il soggetto a cui si riferisce il post offensivo è identificabile per vie traverse, scatta ugualmente la condanna penale. Ad affermarlo è stata la Cassazione con la sentenza n. 16712/14 del 16.04.14.

Diffamazione online su Facebook: secondo la Suprema Corte, il reato di diffamazione non richiede che la vittima venga individuata con nome e cognome se quest’ultima è facilmente identificabile da un certo numero di persone, per quanto limitato. Insomma, se l’identikit della vittima del reato è di pubblico dominio, anche se individuabile da parte di un numero limitato di persone, non si sfugge dalla condanna.

Non conta, dunque, che il messaggio sia pubblicato in forma impersonale. Affinché, infatti, scatti il reato di diffamazione è sufficiente semplicemente che vi sia: 1) la consapevolezza di pronunciare la frase lesiva della reputazione altrui; 2) la volontà che venga a conoscenza di più persone.


Infine, secondo i giudici, sono da considerarsi offensive – e quindi rientranti nella ingiuria – parole come “raccomandato” e “leccaculo”.

Fonte immagine: www.blog.anso.it