Corte di cassazione - Sezioni unite - Sentenza 19 luglio 2013 n. 17652
Legittima la sospensione dalla professione per sei mesi disposta nei
confronti dell’avvocato che si impossessa di somme della società che
rappresenta. E la remissione di querela da parte di quest’ultima se ferma
l’azione penale non sortisce tuttavia effetti sul piano disciplinare. Lo hanno
stabilito le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 17652/2013,
bocciando il ricorso del legale.
Secondo i giudici infatti “la statuizione di non doversi procedere per
rimessione della querela in ordine alla imputazione di appropriazione indebita -
illecito, questo, che trova un riscontro tra le incolpazioni per le quali la
ricorrente è stata sanzionata disciplinarmente - non spiega, all’evidenza,
alcuna efficacia in ordine alla sussistenza del fatto come accertato dalla
decisione impugnata. La impossibilità di procedere ad un accertamento di
responsabilità in sede penale, per il venir meno di una condizione di
procedibilità, infatti, lascia inalterato l’ambito della valutazione rimessa al
Cnf”.
Anche dopo il giugno del 2000 è illegittima la capitalizzazione degli
interessi bancari. Lo ha stabilito il Tribunale di Treviso (sezione di
Montebelluna), con la sentenza n. 1101/13, condannando Banca Intesa a restituire
ad una Srl 365.068 euro, oltre interessi e spese, per rimborso di interessi
composti addebitati in conto dal 1980 al 2005.
Dopo le sentenze del ’99 con le quali la Cassazione ha dichiarato la
illegittimità della capitalizzazione degli interessi perché fonte di produzione
di interessi anatocistici, è intervenuta la Delibera Cicr 9/2/2000 che alla sola
condizione di parità di trattamento di capitalizzazione tra interessi debitori e
creditori, ha rilegittimato di fatto la produzione degli interessi composti.
Ragion per cui il rimborso degli interessi anatocistici è stato di norma
riconosciuto fino al giugno 2000, e non oltre.
La sentenza di Treviso, emessa dal Giudice Susanna Menegazzi, consolida
un nuovo orientamento (Trib. Mondovì, sentenza del 17/02/2009; Trib. Venezia,
sentenza del 22/01/2007; Trib. Torino, sentenza del 05/10/2007; Trib. Padova,
sentenza del 27/04/2008), affermando l’inapplicabilità della Delibera CICR ai
contratti che erano già in corso al momento della sua entrata in vigore, senza
che via sia stata una nuova pattuizione con il cliente.
Nel caso
specifico la banca non si era neppure adeguata alle disposizioni della delibera
Cicr che prevedono la pubblicazione in Gazzetta e la comunicazione per iscritto
al correntista, tuttavia anche se così fosse stato nulla sarebbe cambiato.
Infatti, spiega la sentenza: “Se anche la banca avesse applicato la periodica
capitalizzazione degli interessi debitori e creditori con identica periodicità e
nel rispetto della Delibera Cicr quanto a pubblicazione e comunicazione al
cliente, tuttavia per rendere legittima la capitalizzazione occorrerebbe una
pattuizione perché non può parlarsi di modifica ‘in melius’ (ulteriore
condizione posta dalla Delibera Cicr) rispetto ad una clausola in precedenza
nulla”.
“Questo nuovo orientamento della giurisprudenza che
ha seguito la S.r.l., è di grande importanza pratica perché consente a tutti i
correntisti titolari di un rapporto di conto corrente acceso prima del giugno
2000 di ottenere non solo il rimborso degli interessi anatocistici addebitati
fino ad oggi, ma anche la eliminazione dal contratto della onerosa clausola di
capitalizzazione”.
Non si salva dalla sanzione della “censura” il magistrato che accumuli
ritardi superiori all’anno anche se ha qualche argomento a suo favore. Lo hanno
stabilito le Sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza
17556/2013, respingendo il ricorso della toga pur riconoscendo che “gli
elementi favorevoli addotti dalla parte sono stati tenuti presenti dalla Sezione
Disciplinare”, la quale tuttavia ha “ritenuto che le circostanze dedotte non
potessero avere una efficacia scriminante dei ritardi ma soltanto, quoad
poenam, giustificare l’irrogazione della sanzione minima della censura”.
La Cassazione ricorda infatti che al magistrato erano stati contestati
ritardi superiori, in undici casi, ai 700 giorni; in quaranta, ai 600 giorni; in
quarantuno, ai 500 giorni; in trentacinque ai 400 giorni; in ventuno, ai 300
giorni; in novantatre ai 200 giorni.
Dunque, argomenta la Suprema corte:
“In relazione a tali ritardi la Sezione Disciplinare, senza alcun automatismo,
ha applicato quella giurisprudenza delle Sezioni Unite (ad esempio sentenza n.
18697 del 2011) che ritiene naturalmente ingiustificabili i ritardi superiori
all’anno, in quanto superiori alla soglia della ragionevolezza, salva la
allegazione e dimostrazione di circostanze assolutamente eccezionali, nella
specie non verificatasi”.
I cittadini di origine spagnola, o comunque nati in paesi nei quali ai figli si
dà il cognome sia materno che paterno, hanno il diritto a conservare il doppio
cognome anche in Italia, dopo aver ottenuto la cittadinanza nel nostro paese. Lo
sottolinea la Cassazione, con la sentenza 17462/2013, avvertendo gli ufficiali
dell'anagrafe civile di non 'cancellare’ il secondo cognome ai nuovi cittadini
italiani che portano sia il patronimico paterno che quello materno.
La sentenza fa chiarezza in ambito civilistico in merito ad alcuni dubbi
applicativi riguardanti l'articolo 10 del Rd16 marzo 1942 n. 267 (di seguito
"legge fallimentare"). In particolare, secondo la Corte di cassazione, la
legittimazione processuale in relazione al procedimento con il quale si dichiara
lo stato di insolvenza e, di conseguenza, il fallimento di una società spetta al
rappresentante legale della stessa (e, dunque, al suo liquidatore) anche quando
la dichiarazione di fallimento intervenga entro un anno dalla cancellazione
della società dal registro delle imprese ovverosia nonostante l'intervenuta
estinzione della società